Un giorno
quando sei stanco e ti fermi alla farmacia per ingurgitare una posizione
disgustosa che non ti renderà invincibile nè ti trasformerà in un supereroe, ma
servirà solo a affievolire quel senso di spossatezza che arriva il fine
settimana che non è fine settimana perché il lavoro continua e bisogna
cavalcare l'onda finché è alta.
Un
pomeriggio che è già troppo breve perché - ti ricordi- devi anche fare la
spesa, spedire le venti bottiglie di acqua a casa e calcolare l'arrivo del
fattorino con la tua presenza davanti al portone, perché ci sono anche i kiwi e,
se la consegna non va a buon fine, la frutta marcisce.
Poi ti
siedi un attimo e per farlo scegli di salire fino al ventiseiesimo piano della
Torre Carota, perchè un po’ ti piace la sensazione di avere un briciolo di
tempo da perdere prima di cominciare il lavoro successivo. E allora sali, sali,
di piano in piano, fino in cima. Ti guardi intorno e vedi che mille altre
persone hanno avuto la tua stessa idea. Smarrito valuti di rifugiarti nell'
ascensore che ti sputerà al piano sotterraneo nel supermercato gelido a
quell’ora con un campionario di pesce invidiabile in esposizione e i carrelli,
i punti spesa e le commesse in fibrillazione.
Alla
fine, quando stai per darti pervinto, ti soccorre uno sguardo amico e la sua
mano ti porge una sedia. Nei suoi occhi vedi un'Italia antica, congedatasi dal
vecchio continente per raggiungere nuovi lidi e sopravvissuta a due generazioni
genuina, autentica proprio perché presente nei ricordi delle prodi gesta dei
suoi abitanti e evocata nei suoi lati migliori. Due italiani, un tavolo, un
caffè: i dieci minuti si sciolgono e si dilatano in un fitto chiacchiericcio
per oltre due ore. E io dimentico il telefono, il computer il lavoro,
l’orologio. Ci sono cose che avvengono così e colgono piacevolmente alla
sprovvista. Timide si affacciano le lacrime, si sorride amaramente: era un
momento atteso da tempo, un appuntamento sospeso per aria che tradisce nella
sua imprevedibilità l’efferratezza del destino.
Un me di
vent’anni più grande e un lui di vent’anni più giovane si specchiano l’uno
nell’altro sullo sfondo sconfinato di una città a volte così bella, altre così
spietata, ora semplicemente ornamentale.
Pochi
giorni dopo ti rivedo John per strada, mentre sono di fretta. Sei di spalle e
cammini lentamente in direzione della Torre Carota. Il tuo rifugio
inespugnabile, il serbatoio dei tuoi ricordi, il tuo luogo amico. Ti vedo e
vorrei raggiungerti, batterti una pacca sulla spalla ma la vita, quella
prevedibile e ordinaria non me lo consente. Mi spinge a sinistra verso i
tornelli della stazione. Nella mia testa ci sono la frutta e la lista della
spesa, la fermata del treno dove cambiare, il pagamento delle bollette, la
pesantezza degli attrezzi della palestra. Dovrei imparare a diffidare dei
nemici. Compaiono nelle sembianze più inattese e si infiltrano nella mia
esistenza quotidiana nelle vesti di innocue presenze. Ho smesso di mangiare i kiwi
e a rimetterne sarà sicuramente la salute. In testa, però si è liberato un
tassello per te John; la prossima volta se ti incontro non ci sarà ortaggio che
tenga.
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