È incredibile quanto parlassero. Ogni sera
così. Fitto fitto e ridevano o si disperavano, insieme. Su quella panchina
abusiva di pietra levigata che sporgeva sgraziata dal muro della casa. O su
qualche sedia raccattata nel soggiorno di una o dell’altra comare presenti.
Tutte puntuali sul far della sera. Il
rosario appeso al collo o stretto in una mano, una preghiera inframmezzata da
una storia o da un pettegolezzo, sempre in penitenza. Gli occhi indiscreti di
un bambino che le scrutava pieno di curiosità. Potevano essere delle streghe o
delle fate un po’ datate. Difficilmente definirle regine o principesse per via
dei vestiti dozzinali che le infagottavano e i volti rovinati dalle rughe e dal
duro lavoro nei campi. Contadine alla ricerca di un salotto all’aria aperta.
Tutte le sere c’era una novità da celebrare, un ospite da accogliere, un
defunto da compiangere. Le chiavi del negozio sfilate nel sonno al suo
proprietario per aprire i battenti dell’emporio che garantiva per tutte gazzose e biscotti a volontà. Le mie orecchie
a quell’età ascoltavano avide quelle parole in dialetto ma i suoni non si
materializzavano in significati comprensibili, bensì in nenie e cantilene che
appartenevano ad altri tempi. In quel crocchio non si trovavano né grazia né
bellezza come le definiremo oggi. Cos’era allora che mi spingeva a rinunciare
ai miei giochi per andare a sentirle chiacchierare alla fioca luce di una
candela? Cosa mi portava a invadere quello spazio e aggrapparmi alle gonne di
mia nonna, la più silenziosa, mentre la comare più anziana prorompeva in un
tronfio soliloquio? Alle porte dell’autunno un’ immagine proveniente da
un’estate lontana di trent’anni fa chiude la stagione calda, lasciando spazio a
delle riflessioni che da bambino non ho potuto fare. Mi sforzo di ricordare
cosa succedeva dopo. Che cosa seguiva le chiacchiere. Il momento di rientrare a
casa e ritornare al ruolo di mogli devote. Avrei voluto che un giorno la magia
ci inondasse tutti. Bambini compresi, se presenti. Per una notte non sarebbe
stato necessario chiudere la porta di casa a doppia mandata e tutti i presenti avrebbero potuto
continuare a sognare sotto un mare di stelle.
mercoledì 4 ottobre 2017
lunedì 18 settembre 2017
Pensilina paradiso
Quando il viaggio sta per finire non demordo e continuo a viaggiare. Sono andato a comprare la carne macinata e il formaggio di soia, poi siamo stati colti di sorpresa dalla pioggia. Non ero da solo nel momento in cui mi sono rifugiato sotto la pensilina dell'autobus. Mi sarei voluto appoggiare, per un attimo cedere alla morbidezza che avevo assaporato fino alla mattina stessa, poi ho ripiegato per il pilastro in metallo del gabbiotto. Al riparo mi chiedevo come si chiamasse il luogo dove mi trovavo. Le parole che alcuni anni fa fluivano naturali da un po' di tempo a questa parte si stanno incastrando chissà dove nel mio cervello, abbinate a caratteri ideografici come nel gioco delle coppie. Per recuperarle mi viene in aiuto il giapponese, altre volte invece per riscattarmi dall'imbarazzo che un insegnante di italiano prova dimenticando la lingua che insegna, devo aspettare di sedermi a scrivere. In quel frangente però avevo il tempo dalla mia parte. L'attesa vissuta come espediente per pensare, non come schizofrenico vuoto da sopprimere. Speravo l'autobus non arrivasse mai. E poi le persone intorno con i loro discorsi. Tutti stipati là sotto a conversare piacevolmente. Un'oasi di pace con un nome che non riuscivo a ricordare. Forse avrei potuto battezzarla diversamente per suggellare quell'esperienza. Mi sono piovute in testa tre gocce e istintivamente per schivarle mi sono spostato. I confini tra le persone sono morbidi, ho pensato mentre zigzagavo nel risicato spazio libero. Ho avuto nostalgia dell'Italia prima ancora di essere partito. L'ultima tappa del viaggio, pensavo ingenuamente e invece ho realizzato di essermi fermato dopo tanto tempo solo nelle settimane appena trascorse. Prossimamente mi avrebbe aspettato la rituale traversata oceanica e un tofu piccante certamente più gustoso di quello che avrei cucinato oggi. Una magra consolazione. I pensieri si sono interrotti all'arrivo del bus e, finalmente, la parola che cercavo ha fatto capolino sulla punta della lingua. Ho fatto la linguaccia all'autista per farla uscire e proferirla come un neonato alla prima invocazione: "Pensilina". Paradiso. Sollievo perchè la mia testa funzionava ancora, le sinapsi al lavoro per stabilire nuove connessioni per parole in disuso.
venerdì 4 agosto 2017
Signorina ridicola
Un giorno di questi, mi rifugio dalla calura nella sala insegnanti dell'università Y. Non si tratta di una pausa; in realtà ho del lavoro da sbrigare e prima di varcare la soglia della stanza pregusto la comodità delle poltroncine e l'aria condizionata modulata alla temperatura esterna in modo impeccabile che caratterizzano quel luogo. Mi accoglie una tromba umana che riecheggia in tutti gli angoli della stanza: l'altra faccia della comodità, i confort ci rendono poltroni e qualcuno ha pensato bene di schiacciare un rumoroso pisolino. Niente di nuovo fin qui: sfodero le mie cuffie e mi isolo nella musica che, nonostante rubi parte della mia concentrazione, dall'altra è preferibile agli assoli monotoni del mio compagno di stanza. Dopo pochi minuti entra una signorina sottile come una foglia. Non faccio in tempo a focalizzarla, che sparisce dietro al paravento che separa le diverse postazioni della sala. Se le associassi una voce potrebbe squittire o cinguettare, aveva qualcosa di leggiadro e nello stesso tempo movenze sfuggenti, tant'è che non riuscivo neppure più a localizzarla nella stanza. A quel punto, non mi sono più curato di chi ci fosse lì e di cosa facesse e sono piombato nel lavoro per una buona mezz'ora. Al termine della quale aleggia dall'alto un foglietto di carta, lanciato con tale dovizia da planare sulla tastiera del mio computer dolce e innocuo. Ha tutta l'aria di una lettera d'amore. Lo spiego fra le mani e per un attimo vengo stregato dall'accuratezza dei caratteri. Chi l'aveva scritto possedeva mani da fata e il potere di dissimulare il contenuto sgradito del messaggio con l'abilità nel vergare i caratteri. "Il suono da lei emesso è percepibile nella stanza. Questa sua mancanza è un comportamento contrario alle regole di pacifica convivenza", recitava il foglietto. La distonia fra forma e contenuto genera un attrito tale che per poco non è in grado di farmi capitolare dalla sedia. Una sferzata fredda, precisa e impeccabile come quella inferta da una lama spietata e calcolatrice ma altrettanto elegante e solenne.
Istintivamente spengo le cuffie e sono pronto a scusarmi, ma vengo bloccato dal persistente russare del nostro collega che continua imperterrito la ronfata di un'ora prima. Mi chiedo perchè la signorina ritenga fastidioso il suono proveniente dalle cuffie e giustifichi invece l'umiliante performance del nostro collega. Decido quindi di vendicarmi e, istantaneamente, porgo il foglietto alla donna che già si stava dirigendo spedita verso l'uscita, stoccata e fuga.
"Grazie del messaggio, ma purtroppo non riesco a leggere il contenuto, capisco il giapponese ma non so leggere gli ideogrammi". Smaccata bugia, dolente bugia. Per un attimo cancello dalla mia vita tutto il tempo trascorso vergando caratteri cinesi e gli sforzi che ho fatto per diventare uno straniero rispettoso delle tradizioni e delle abitudini del paese in cui vivo. Del resto in Giappone, molti insegnanti universitari provenienti da Occidente, non conoscono la lingua e non fanno il minimo sforzo per impararla. Allineato alla media, attendo che dispensi a viva voce la lieta novella.
"Il suono da lei emesso è percepibile nella stanza. Questa sua mancanza è un comportamento contrario alle regole di pacifica convivenza". Non si tira indietro, è convinta di quello che ha scritto e lo ripete, nonostante stia contravvenendo alla sua stessa regola. In più il messaggio sembra destinato al nostro caro collega, il cui sonno pesante è stato miracolosamente interrotto dalla leggiadra incursione sonora al femminile nella stanza.
Sono vincitore su entrambi i fronti e posso nuovamente concentrarmi sul mio lavoro, mentre dietro di me sento chiudere la porta un pochino più forte rispetto a quanto non si addica al tocco vellutato di una geisha giapponese.
"Grazie del messaggio, ma purtroppo non riesco a leggere il contenuto, capisco il giapponese ma non so leggere gli ideogrammi". Smaccata bugia, dolente bugia. Per un attimo cancello dalla mia vita tutto il tempo trascorso vergando caratteri cinesi e gli sforzi che ho fatto per diventare uno straniero rispettoso delle tradizioni e delle abitudini del paese in cui vivo. Del resto in Giappone, molti insegnanti universitari provenienti da Occidente, non conoscono la lingua e non fanno il minimo sforzo per impararla. Allineato alla media, attendo che dispensi a viva voce la lieta novella.
"Il suono da lei emesso è percepibile nella stanza. Questa sua mancanza è un comportamento contrario alle regole di pacifica convivenza". Non si tira indietro, è convinta di quello che ha scritto e lo ripete, nonostante stia contravvenendo alla sua stessa regola. In più il messaggio sembra destinato al nostro caro collega, il cui sonno pesante è stato miracolosamente interrotto dalla leggiadra incursione sonora al femminile nella stanza.
Sono vincitore su entrambi i fronti e posso nuovamente concentrarmi sul mio lavoro, mentre dietro di me sento chiudere la porta un pochino più forte rispetto a quanto non si addica al tocco vellutato di una geisha giapponese.
Di necessità si scrive
C'erano tutti i presupposti ad eccezione della calura, proibitivo stare all'aperto oggi. Modalità esplorativa attivata, la confidenza di trovare un buon posto dove scrivere in città. Prima di cominciare un buon pranzetto per placare eventuali languorini che potevano disturbare il flusso delle mie elucubrazioni creative. Un'unica scadenza da rispettare: la lezione di cinese delle sei di sera a Shibuya. Nei giorni di vacanza non mi piace spostarmi in treno, quindi ho optato per quella destinazione in modo da ridurre al minimo l'uso della metro. Una volta arrivato, ho deciso di trastullarmi nelle comodità della metropoli e ho seguito la scia di aria condizionata che mi ha guidato in direzione del grattacielo/contenitore Hikarie, dove i sogni si concretizzano nelle forme più disparate: dai sandwich alle fragole, agli smalti per i cammelli. La materialità del luogo schiaccia inesorabile il flusso del pensiero veicolato alla sua realizzazione immediata e riconoscibile. Non ci sono sorprese ad eccezione di quelle impacchettate dalle commesse indaffarate.
Ora scrivo da una postazione provvisoria proprio vicino ai cessi e agli ascensori. Un posto dove non si sosta volentieri, ma almeno la temperatura è umana. Conto cinquanta persone in poco più di cinque minuti. Poi getto la spugna. Ci sono giorni che non sono fatti per scrivere. Un po' come le date del calendario buddista dove è sconsigliato costruire o avviare un'attività. Questa giornata non deve passare inascoltata però, così decido di intrattenermi ancora un po' nel viavai delle persone e degli effluvi delle toilette che caratterizzano il settimo piano di Hikarie.
Di necessità si scrive.
venerdì 14 luglio 2017
Oserei chiamarti Snupina
Sui resti di una costruzione millenaria cammino a stenti guardando il vuoto intorno.
Non c'è nulla a cui possa aggrapparmi per sfuggire al senso di vertigine che mi irrigidisce le gambe. Da piccolo invocavo i crepacci, i burroni e tu mi accontentavi riproducendoli su carta come meglio potevi. Era tutto bidimensionale, ma io ci mettevo l'immaginazione. C'era qualcosa di inconciliabile fra il desiderio di maternità precoce di una bambina che si materializzava nelle culle disseminate tra quelle pagine innocenti e la mia attrazione per le cadute libere in fosse aguzze piene di serpenti velenosi e dinosauri. Gli episodi, però, arrivavano puntuali e passavi interi pomeriggi a disegnare, strappare, rifare assecondando i miei capricci di incapace a superare lo scoglio della prima pagina. Sei tu la fumettista mancata della famiglia. Poi è arrivato il sangue a separarci. Raggrumato si è trasformato in una parete invalicabile. Le stanze da letto sono diventate due e ci siamo persi nei meandri della vita. Tu in Svezia, io in Germania, tornati pieni di interrogativi in differita. Parentesi canine e feline, tu mare, io montagna non esisteva tregua né riconciliazione. Chi l'avrebbe detto che ti avrei ritrovato grazie allo zampino di chi, da dietro la cattedra della scuola media che abbiamo frequentato, aveva sortito un incantesimo a lungo termine. Una magia che avrebbe trovato la sua realizzazione a distanza di anni, nella cornice incantata e allo stesso tempo terrificante della Grande Muraglia.
Sui resti di una costruzione millenaria cammino a stenti guardando il vuoto intorno.
Vinco la mia paura più grande: quella di stringerti la mano. In un attimo tutti i miei pensieri distorti , le rotture e le incomprensioni si ridimensionano e si dissolvono come sabbia sui nostri passi, calibrati lenti su una voragine che si spalanca, ma che con te non mi fa più così più paura.
Oggi oserei chiamarti Snupina, cara mia amata sorella!
martedì 4 luglio 2017
Non ci sarà ortaggio che tenga
Un giorno
quando sei stanco e ti fermi alla farmacia per ingurgitare una posizione
disgustosa che non ti renderà invincibile nè ti trasformerà in un supereroe, ma
servirà solo a affievolire quel senso di spossatezza che arriva il fine
settimana che non è fine settimana perché il lavoro continua e bisogna
cavalcare l'onda finché è alta.
Un
pomeriggio che è già troppo breve perché - ti ricordi- devi anche fare la
spesa, spedire le venti bottiglie di acqua a casa e calcolare l'arrivo del
fattorino con la tua presenza davanti al portone, perché ci sono anche i kiwi e,
se la consegna non va a buon fine, la frutta marcisce.
Poi ti
siedi un attimo e per farlo scegli di salire fino al ventiseiesimo piano della
Torre Carota, perchè un po’ ti piace la sensazione di avere un briciolo di
tempo da perdere prima di cominciare il lavoro successivo. E allora sali, sali,
di piano in piano, fino in cima. Ti guardi intorno e vedi che mille altre
persone hanno avuto la tua stessa idea. Smarrito valuti di rifugiarti nell'
ascensore che ti sputerà al piano sotterraneo nel supermercato gelido a
quell’ora con un campionario di pesce invidiabile in esposizione e i carrelli,
i punti spesa e le commesse in fibrillazione.
Alla
fine, quando stai per darti pervinto, ti soccorre uno sguardo amico e la sua
mano ti porge una sedia. Nei suoi occhi vedi un'Italia antica, congedatasi dal
vecchio continente per raggiungere nuovi lidi e sopravvissuta a due generazioni
genuina, autentica proprio perché presente nei ricordi delle prodi gesta dei
suoi abitanti e evocata nei suoi lati migliori. Due italiani, un tavolo, un
caffè: i dieci minuti si sciolgono e si dilatano in un fitto chiacchiericcio
per oltre due ore. E io dimentico il telefono, il computer il lavoro,
l’orologio. Ci sono cose che avvengono così e colgono piacevolmente alla
sprovvista. Timide si affacciano le lacrime, si sorride amaramente: era un
momento atteso da tempo, un appuntamento sospeso per aria che tradisce nella
sua imprevedibilità l’efferratezza del destino.
Un me di
vent’anni più grande e un lui di vent’anni più giovane si specchiano l’uno
nell’altro sullo sfondo sconfinato di una città a volte così bella, altre così
spietata, ora semplicemente ornamentale.
Pochi
giorni dopo ti rivedo John per strada, mentre sono di fretta. Sei di spalle e
cammini lentamente in direzione della Torre Carota. Il tuo rifugio
inespugnabile, il serbatoio dei tuoi ricordi, il tuo luogo amico. Ti vedo e
vorrei raggiungerti, batterti una pacca sulla spalla ma la vita, quella
prevedibile e ordinaria non me lo consente. Mi spinge a sinistra verso i
tornelli della stazione. Nella mia testa ci sono la frutta e la lista della
spesa, la fermata del treno dove cambiare, il pagamento delle bollette, la
pesantezza degli attrezzi della palestra. Dovrei imparare a diffidare dei
nemici. Compaiono nelle sembianze più inattese e si infiltrano nella mia
esistenza quotidiana nelle vesti di innocue presenze. Ho smesso di mangiare i kiwi
e a rimetterne sarà sicuramente la salute. In testa, però si è liberato un
tassello per te John; la prossima volta se ti incontro non ci sarà ortaggio che
tenga.
domenica 7 maggio 2017
Parlo anche di te
Voglio
parlare dei miei amici e delle mie amiche. Scrivere uno ad uno i loro nomi.
Dedicare una pinta di birra a ciascuno. Ricordare dove li ho visti l’ultima
volta. E so che non sarà possibile farlo, complice anche Facebook che ci pensa
lui a tenerli aggiornati sulla mia vita, la mia routine, le cose belle e meno
belle che mi capitano in questo angolo di mondo e viceversa. Come si riempiono
le distanze spaziali se anche la città in cui vivo è troppo grande per un
appuntamento improvvisato? Ho bisogno più che mai dei miei amici, di voi che
leggerete queste righe ricordando quanto ci siamo divertiti l’ultima volta
insieme.
La
mia vena creativa non sono solo i luoghi che visito; sono le esperienze che
vivo certo, ma soprattutto è fatta dalle conversazioni volanti, quelle nate
intorno a un caffè consumato in compagnia mentre il mondo continua a girare. E
giri pure chissenefrega. Io sono qui con te, e questo tempo e questo luogo sono
impagabili dovunque essi siano, che la torta di mele sia bruciata o la bibita
un intruglio di ghiaccio sciolto o che non ci sia proprio niente sul tavolo o
che manchi addirittura il tavolo e ci troviamo sotto un cielo stellato o sotto
una pioggia scrosciata all’improvviso, aggrappati a un pezzo di muraglia e ci
dobbiamo inventare tutto con le nostre testoline.
Non
esistono tristi verità, solo una lotta estenuante con le infrastrutture. La
separazione è diventata una condizione necessaria e io non riesco più a
spingermi al di là dello schermo per capire se ci siete o meno. Ora spengo e
vado a prendere una boccata d’aria. Ti aspetto al solito posto, come ai vecchi
tempi. Aspettami che sto arrivando. Aspettami…
venerdì 10 febbraio 2017
Caro amico
"Colorless Tsukuru Tazaki and His Years of Pilgrimage".
Pensavo che questo libro non mi riguardasse.
Una storia da leggere senza troppe aspettative.
Una lettura da treno piacevole ma discontinua.
Di certo non mi commuoverò, con tutti questi ideogrammi.
Invece, qualcosa di inaspettato è accaduto. Mi sono ritrovato catapultato in un passato che mi apparteneva e riviveva nella storia che stavo leggendo.
A quel tempo facevo le valigie e partivo per la Germania e al mio ritorno tutto era troppo confuso perchè potessi capire chi era stato ferito da cosa e perchè.
L'instabilità di quel periodo ha contribuito a deteriorare ulteriormente alcune relazioni già provate nel corso degli anni senza che scaturissero sensi di colpa o prese di posizioni per evitare l'allontanamento.
Lettere ricevute e ripiegate con cura senza averle realmente capite, per poi decidere di andare ognuno avanti per la propria strada.
Non c'è tempo di percepire il vuoto; nel vortice degli accadimenti, gli stimoli sono così forti e regalano euforia, sulla strada ci sono prima due, poi tre bivi e al momento della decisione eccoli moltiplicarsi in altrettante biforcazioni.
Dove si perdono di vista le persone, qual è l'ultima frase detta, si è consapevoli di infliggere una ferita mortale a una relazione?
In questi anni di permanenza all'estero ho fatto di tutto per mantenere vivide le mie amicizie oltreoceano. Quando torno ho la riprova di non essere stato dimenticato. Il calore non manca, le effusioni amplificate dalla separazione, la certezza che il mio posto nel mondo esiste anche in Italia.
La nota stonata è sempre lì e mi rammenta che la perfezione umana non esiste.
Si commettono errori e un giorno si dimentica di averli fatti.
Vorrei pensarti ancora come parte della mia vita. Ma chi sei ora io non lo so più. Spero che ci sia ancora qualcosa in serbo per noi su questo vasto pianeta.
Caro amico.
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