Le cadute erano la prerogativa di pochi in
quella notte d’agosto. Io ancora con le fattezze di un bambino mi ero
guadagnato un posto nel reparto femminile. Il resto del pronto soccorso in
balia dei residui di uno scoppiettante Ferragosto. C’è chi alle stelle aveva
preferito le girandole comprate al mercato. Era questione di un attimo, costava
un fiammifero e a distanze ravvicinate si poteva ricreare l’illusione di
collisioni stellari. Del tutto plausibile che qualcosa andasse storto: qualche
vittima doveva per forza esserci per giustificare l’onta subita dalla volta
celeste da parte di un’umanità che si credeva sempre più onnipotente.
Infermieri e personale ospedaliero nel caos tentavano invano di rintracciare un
medico che, in quello stesso momento, si trovava a mille chilometri di distanza
sorseggiando un Bloody Mary e lanciava speranzoso occhiate maliziose alla
vicina di ombrellone. Il mio sguardo invece era fisso sulla targhetta che
campeggiava davanti al letto di fronte, rifatto alla perfezione: recitava Edyta
Kowalczyk. Per me i nomi erano troppo importanti e l’incapacità in quell’
accozzaglia di lettere di trovare il senso della persona che io avevo battezzato Bella, mi lasciava perplesso e deluso, quasi indolenzito, non
bastasse il dolore fisico provocato dalla caduta di quella notte. Questione di chiudere gli occhi e sbattere le palpebre perché lei si volatilizzasse e per di più
cambiasse il nome che le avevo dato. In quel letto d’ospedale rimuginavo sul fatto
che la giustizia esisteva solo per pochi e di sicuro non aveva riguardi nei
confronti delle persone che come me amavano sognare un mondo migliore.
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