E’ la mattina in cui posso dormire ma so che da qualche
parte un treno sta per partire. E’ un dormiveglia inquieto che se da un lato mi
spinge a dimenticare dove sono e cosa devo fare in favore di una realtà
alternativa che posso plasmare a mio piacimento, dall’altra mi spinge a
prendere coscienza e a sgattaiolare sotto la doccia calda per riacquistare la
consapevolezza del mio corpo. E’ un’immagine nitida a strapparmi dai sogni.
Qualcosa di reale che poco ha a che fare
con l’atmosfera ovattata che mi aveva accompagnato fino a pochi minuti fa. Mi
sveglio in mezzo al ciarpame della mia stanza e mi appendo alla finestra perché
possa traspirare un filo d’aria fresca a strapparmi da quell’atmosfera viziata.
Sono io e i miei quindici metri quadri di spazio vitale. Ridotto all’osso dalla
materia inanimata accatastata ovunque. Trattengo il respiro fino a quando è
l’epidermide a segnalarmi che il freddo dell’esterno avvolge finalmente il mio
corpo. Lo accarezza come le mani di una madre. Lo plasma nel vento autunnale. Non
resisto e mi faccio strada sul cornicione. Attento a dove metto i piedi perché
potrei raggiungere il ballatoio della casa di fronte. Sono fuori di casa in
bilico e mi stiracchio come un gatto al sole. Lo spazio fra le case è talmente
irrisorio che potrei improvvisarmi ninja e saltare di tetto in tetto senza aver
paura di cadere. Ed ecco che alla finestra di fianco compare una figura. La
presenza che sento aldilà delle tende in estate. Le fragranze dei suoi
manicaretti vengono dirottate dal vento e io le respiro esigente il menù del
giorno. Una massaia con una famiglia numerosa, la immaginavo sempre a
spignattare. Ora davanti a me, mi fissava basita. Così vicini e eternamente
incompatibili. C’era la mia lingua incomprensibile, il fumo delle sigarette, i
frastuoni dello stereo dopo le dieci di sera. In quel momento il mio essere
stava impersonando tutti i difetti che filtravano dalla finestra. Quanto a me
pensavo non l’avrei vista mai, data l’abilità con cui i giapponesi sono soliti
nascondersi dietro a paraventi o tendine. Invece il mio gesto stravagante aveva
stravolto la sua quotidianità, di quando si affacciava e godeva in solitudine
del sole mattutino una volta che marito e figli si levavano di torno. Sarà
l’emozione del luogo (terrazzi e cornicioni hanno sempre un che di romantico e
avventuroso) sarà che in quel momento mi sarei trovato in difficoltà ad una sua
brusca reazione con il rischio di perdere l’equilibrio, sarà l’intensità del
momento o la nostra assurda solitudine, ma la signora mi ha teso la mano. E io
infelice ho ricambiato il suo gesto. In silenzio. Sconfitto dall’avidità di
contatto fisico che contamina il mio comportamento, orientandolo verso scelte
spesso sbagliate.
Stringo la mano ad una sconosciuta sospeso per aria. Può
succedere solo in Giappone. La stringo così forte che rischio di sbilanciarmi e
piombarle in casa. Lei fa lo stesso. Poi arriva il camion dei traslochi. E’
arrivato il momento di dire addio al vicinato e ricominciare una nuova vita. Almeno l’ho
fatto in modo originale.
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