Il mio sguardo si è distolto per un istante dal libro che
stavo leggendo. E mentre il treno continuava a correre si è posato sulle
immagini che scorrevano sul finestrino. Era una scena irreale che si svolgeva a
pochi metri oltre la griglia che separava le rotaie dal mondo esterno che
scorreva più lento. Era il parco C. a pochi isolati dalla stazione di cui mi
servo ogni giorno. C’erano almeno sei persone radunate intorno ad un albero.
Prima di realizzare che non era l’orario né il giorno adatto per un picnic nel
parco qualcosa di ancora più sbalorditivo mi ha colto alla sprovvista:
indossavano delle maschere. Sono riuscita a distinguere un viso in plastica da
pagliaccio imprigionato in un ghigno sorridente e una fatina dalla corona dorata.
C’era anche uno Spiderman. Prtavano degli abiti apparentemente ordinari. Ma il
loro incontro aveva qualcosa di solenne. Non avevo mai sentito parlare prima
d’allora della Mascherata. Quell’immagine trascorsa per una manciata di secondi
era già scomparsa, sostituita da una monotona schiera di palazzi interminabili.
Ma è bastato annotarmi l’ora il giorno e il luogo del mio curioso avvistamento
per realizzare che ci sarebbe stato un seguito.
Sin da piccola
ho avuto una passione per i costumi. Ogni anno a Carnevale ne pretendevo uno nuovo senza badare a mode e a
convenzioni ma piuttosto ai miei
capricci del momento. Leggevo i fumetti e li usavo come ispirazione per creare
dei personaggi inventati che poi riproducevo nei minimi dettagli sul mio diario. Un mese prima della festa
immancabilmente mi veniva chiesto come mi volessi vestire io mostravo la mia
creazione. Quasi mai gli abiti che richiedevo venivano realizzati nel modo che
volevo. Storcevo il naso ma poi indossavo il costume e mi accontentavo di
calarmi nella parte. Misteria, Trasparence Diamonda ben poco si adattavano alle
maschere tradizionali dei miei compagni.Quando vestivo i loro panni
immancabilmente mi veniva chiesto che cosa volessi impersonare. Non sapevo
rispondere: a quell’epoca non ero consapevole del vasto mondo interiore che
scalpitava dentro di me e desiderava ricevere un’espressione corporea. Mi
limitavo a sorridere qualsiasi dei personaggi fossi, per poi calarmi in un
ruolo che conoscevo solo io. Interrompevo il noioso ripetersi di dialoghi
provenienti dalle serie teevisive più popolari che i miei amichetti si
ostinavano a imparare e a riprodurre come pappagalli. Mi guardavano stupiti per
poi fare spazio anche a me ai loro giochi. Ero io a dettare gli sviluppi
successivi. La sera, rotta l’ultima pentolaccia mi veniva chiesto di togliermi
il costume e ritornare nella realtà. Era una violenza bella e buona: scalpitavo
e mi dimenavo per sfuggire alla presa impaziente dei miei genitori che
desideravano mettere fine a quella pagliacciata. Ero come una mina impazzita
ormai completamente immersa nella parte. La verità era decisamente altrove,
senz’altro non rinchiusa nelle quattro mura di case
dove sarei tornata ad essere la solita bambina di sempre. Alla fine non gli
restava che assecondarmi e permettermi di sognare per una notte agghindata nel
costume di turno. Ricordo quando i costumi si impossessavano di me nel sonno e
mi regalavano momenti estremamente intensi, forse troppo forti per chi come me
era ancora una bambina. L’ultimo Carnevale che ho festeggiato è stato quello
dei miei undici anni. In quell’occasione avrei reso giustizia a Taylor la
Zoppa, con tanto di moncherino in plastica e benda nera. Mi ero ispirata al
mondo pirata ma l’avevo capovolto in una versione femminista. Mi ero procurata
anche delle stampelle di legno dall’armadio della zia Tina che ormai defunta
non poteva più farne uso. Pensavo le donassero molto quando le usava. Ero così
felice di questa mia nuova creazione che quando la responsabile della Festa
vedendomi così conciata ha preteso che mi cambiassi nel bagno con un banale
costume della Pantera Rosa che teneva di riserva nel caso si presentassero
bambini non vestiti, chiusa nello spazio angusto della toilet ho elaborato il
mio primo piano di fuga. Ho incastrato
fra la tazza del water e il muro le due stampelle e le ho usate come
sostegno per uscire dalla finestra posta sopra ma ad una distanza
iraggiungibile perché potessi arrampicarmici. Taylor la Zoppa senza le stampelle era diventata un
surrogato che avevo denominato per l’occasione Taylor la Guercia. Ho vissuto
nei suoi panni per più di quarantotto ore. Tutti cercavano una Pantera Rosa in
fuga mentre una donna pirata poteva ancora passare nell’anonimato. Però….
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